
Una riflessione sulla pace in Medio Oriente del presidente della Fondazione Gariwo Gabriele Nissim partendo dalla lettura del libro Respirare il futuro. La speranza possibile del villaggio di Neve Shalom Wahat-al Salam di Giulia Ceccutti
È tempo di cambiare radicalmente il modo di rapportarsi alla situazione del Medio Oriente. Invece di sostenere in modo unilaterale i guerrieri delle due parti ed elencare gli orrori e le ragioni degli uni e degli altri, bisogna concentrarsi sulle possibili vie di conciliazione tra palestinesi ed israeliani. Se non si lavora per una via di pace, di non violenza e di dialogo, si passerà da una nuova guerra ad un'altra, ad un nuovo odio generalizzato che porterà ancora tanto sangue.
Ecco perché può essere di grande aiuto il libro di Giulia Ceccuti, Respirare il futuro (in dialogo), che racconta le esperienze e le storie di alcuni dei protagonisti del villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam, l'unico al mondo dove vivono assieme ed in modo egualitario israeliani e palestinesi. Il testo della Ceccuti non solo ci permette di cogliere tutti gli elementi del percorso educativo che ha reso possibile la convivenza tra i due gruppi, ma anche il modo in cui gli abitanti del villaggio hanno condiviso il dolore della guerra, prima il 7 ottobre e poi successivamente con le stragi dell'esercito israeliano a Gaza.
L'esempio forse più alto di questa condivisione, al di sopra delle rispettive appartenenze, è stata la tenda del lutto comune, per i morti israeliani e palestinesi, una esperienza mai realizzata in nessuna parte del mondo e che, come Fondazione Gariwo, vorremmo che fosse replicata nel Giardino dei Giusti di Milano. Quando in Israele non era possibile per un palestinese parlare pubblicamente del proprio dolore per le vittime di Gaza e nello stesso era considerato un atto di tradimento nei territori occupati ricordare le vittime israeliane del 7 ottobre, gli abitanti del villaggio hanno deciso di raccontare in una tenda per una giornata intera le sofferenze subite dalle loro famiglie. Così quel dolore terribile che avrebbe potuto dividere per sempre la comunità di Neve Shalom, ha fatto ragionare sul destino comune di sofferenza. Raccontarsi senza censure il male subito ha così riavvicinato gli abitanti del villaggio e ancora una volta ha riacceso la speranza per un percorso di pace.
Se quel lutto comune e condiviso venisse un giorno rielaborato politicamente potrebbe riaprire anche un esame di coscienza sulle politiche omicide e assurde di Hamas e della destra israeliana. Non è liberazione e resistenza l'uso del terrore, dei pogrom, degli stupri in un conflitto, come non è autodifesa la distruzione sistematica di Gaza che di massacro in massacro rasenta il genocidio. Discutere insieme del lutto comune significa respingere l'uso della violenza tra i due gruppi e cercare invece delle vie di comunicazione e di dialogo, anche se non si trova una via d'accordo.
Come sostiene Ariela Bairey Ben Ishay, un'insegnante ebrea che lavora nella Scuola per la pace, la violenza insensata e gratuita è probabilmente esplosa perché fuori dal villaggio non c'era nessun luogo politico dove i gruppi dirigenti israeliani e palestinesi potevano incontrarsi e trattare. «È necessario che quando si percorre la strada dei negoziati, ci si impegni a rimanere fino alla fine, fino a quando non si trovino le soluzioni. Non bisogna ogni volta accampare scuse, ricorrere a frasi come: vedete dall'altra parte non c'è nessuno con cui dialogare o ripetere che non possiamo risolvere la questione parlando con Hamas. Bisogna fare come in una buona relazione di coppia: affrontare il problema fino a trovare la soluzione. Troppo facile andare via e abbandonare la discussione».
L'interruzione di un dialogo politico negli ultimi venti anni ha avuto un effetto devastante perché ha fatto morire la speranza di una possibile soluzione di pace e così ha progressivamente generato l'idea folle secondo cui la liberazione di un gruppo nazionale potesse essere unicamente possibile con la distruzione dell'altro. Invece nel villaggio, come osserva la palestinese Raida Aiashe Khatib, «quando vediamo che c'è un momento di tensione, decidiamo di dialogare. Ci dividiamo in gruppi, perché non bisogna tenere le cose dentro». Continuare a parlarsi è il modo per tenere a freno l'aggressività e il proprio rancore di fronte alle situazioni più difficili che gli abitanti vedono nel mondo esterno e che purtroppo non possono cambiare.
I social, come Instagram e Facebook, non hanno però aiutato il dialogo, perché poche frasi a effetto, scritte spesso anche da noi, possono generare equivoci e contrapposizioni. Quando si scrive una frase senza rivolgerla a un volto di un interlocutore si creano involontariamente inimicizie, piuttosto che comprensione. Ed è spesso successo che un giudizio in rete potesse poi venire strumentalizzato da altri e in una situazione conflittuale, come quella di Israele e della Palestina, creare insicurezza e fornire un pretesto a delle accuse nei confronti di chi lo aveva pronunciato. Un abitante del villaggio poteva così venire bollato come traditore del proprio popolo, o come terrorista.
L'esperimento della comunità israelo-palestinese è nato dall'intuizione di padre Bruno Hussar, che il grande sociologo francese ebreo Edgar Morin metterebbe nella categoria dei neo-marrani moderni che, a partire dal tragico destino ebraico, sono stati capaci di vivere la ricchezza di molteplici identità. «Lasciate che mi presento: sono un prete cattolico, sono ebreo. Cittadino israeliano, sono nato in Egitto, dove ho vissuto diciotto anni. Porto qua con me quattro identità: sono veramente cristiano e prete, veramente ebreo, veramente israeliano, e mi sento pure, se non proprio egiziano, almeno assai vicino agli arabi, che conosco e che amo».
Hussar aveva intuito che un ebreo che diventa sionista per andare a vivere in Israele non può rimanere solo ebreo in un mondo arabo e palestinese, ma deve essere capace di sviluppare una nuova dimensione che racchiuda diverse identità. E la stessa cosa deve valere per il palestinese che, sulla stessa terra, entra in rapporto con un ebreo. Qualche cosa di comune deve nascere dalla relazione. Non c'è solo l'interesse personale e nazionale, ma l'inter-essere che ci lega agli altri e ci porta a curarci di loro, come scrive Vito Mancuso a proposito della condizione umana.
È questo il grande miracolo dell'esperienza del villaggio nato nel 1969. Esso, infatti, non solo ha costruito una esperienza plurale e comunitaria tra i due gruppi nazionali che hanno conosciuto e condiviso la cultura e la storia dell'altro, ma ha anche creato i presupposti per una nuova identità comune che superasse le rispettive appartenenze. Il villaggio, partendo dal grande valore della pluralità e dell'uguaglianza, ha spinto i suoi abitanti a sentirsi costruttori di un futuro comune. «Pensavo che dovessimo avere due sindaci a capo del villaggio, sostiene la palestinese Raida, ma poi ho capito che non contava più l'appartenenza nazionale di chi dirigeva l'amministrazione, ma solo la sua capacità e il modo di rappresentare tutti».
Per creare un senso profondo di appartenenza, che andasse oltre a quella etnico nazionale, Bruno Hussar ha voluto che nel villaggio ci fosse un centro spirituale pluralista che permettesse a tutti di avvertire la medesima condizione umana. È la casa del silenzio, Dumia Sakina, che all'inizio doveva essere triangolare per rappresentare l'incontro tra le tre religioni (cristiana, ebraica e musulmana), ma poi di fronte all'obiezione di un ragazzo ateo, fu invece per volontà di Hussar realizzata con una struttura circolare, dove ognuno poteva scegliere il suo punto di riferimento oltre le stesse religioni. Ciò che però contava, come osserva Bob Mark, uno dei membri più anziani del villaggio, era che tutti in quella cupola erano comunque stimolati alla ricerca di una direzione comune. «Personalmente, intendo l'aggettivo 'spirituale' nel senso più ampio del temine: non l'essere una persona di Dio, né una persona religiosa, ma l'essere una persona».
Il villaggio non ha un gruppo etnico di maggioranza e di minoranza, come accade in Israele, non solo dal punto di vista numerico e di potere, ma riproduce nel suo piccolo la parità dei due popoli che vivono invece «intrappolati dal fiume al mare», come osserva la palestinese Samah Salaime, con una espressione di grande intelligenza che libera questa descrizione geografica dall'uso fanatico delle due parti. Così gli abitanti del villaggio devono essere sempre in numero uguale tra ebrei israeliani e palestinesi.
L'istituzione più importante, che negli anni è diventata il più grande vanto del villaggio, è la scuola primaria bilingue e binazionale, dove fin da piccoli i ragazzi sono indirizzati non solo allo studio dell'ebraico e dell'arabo, ma anche a condividere le differenze feste religiose e nazionali. Come spiega Neama Abu Delo, la scuola, aperta anche a dei ragazzi che abitano fuori dal villaggio, supplisce a una delle contraddizioni più evidenti della società israeliana e palestinese. La non conoscenza delle due lingue e delle rispettive culture e religioni, senza cui diventa impossibile creare dei ponti culturali di comunicazione tra i due popoli. L'insegnamento della lingua araba è un problema difficile in Israele, perché i ragazzi ebrei non sono interessati. Nella scuola invece non solo si insegnano le due lingue, ma si stimolano i genitori a usare le due lingue anche in casa. I ragazzi poi festeggiano assieme tutte le feste religiose, come Hanukkah, Natale, Ramadan e Pesach.
Più complicato è invece ricordare le feste nazionali. Mentre la scuola ricorda assieme Yom Hashoah, il giorno delle vittime dell'Olocausto, il giorno dell'indipendenza nazionale di Israele crea invece una divisione, perché i festeggiamenti per la nascita dello Stato sono vissuti dai palestinesi come il ricordo della Nakba, che portò all'esodo più o meno forzato di 600 mila arabi. Così la scuola discute i due avvenimenti, in un tempo difficile come quello di oggi dove il governo israeliano considera sovversiva la memoria della Nakba e la vorrebbe reprimere.
Creare quindi un orizzonte comune nella didattica è per gli insegnanti del villaggio una grande sfida. Ciò che però la guerra senza fine ha cambiato nella percezione dei suoi abitanti è che è maturata la consapevolezza che il villaggio non può soltanto essere un'isola felice, ma deve diventare un veicolo culturale per la trasformazione del paese, prima che sia troppo tardi.
Per questo sono fondamentali le due istituzioni educative che possono aprire nuovi orizzonti nella popolazione. Da un lato il Giardino dei Giusti universali (Garden of Rescuers) che per la per la prima volta nella storia di Israele, per merito del prof Yair Auron, ha rotto il dogma secondo cui i Giusti sono soltanto coloro che hanno aiutato gli ebrei nell'Olocausto. Così accanto ai Giusti per gli armeni, per le vittime del Mediterraneo, si ricordano gli ebrei che hanno aiutato i palestinesi, come l'ortodossa Bella Freund che salvò dal linciaggio il giovane palestinese Adnan al-Afandi (un giovane che aveva accoltellato due adolescenti ebrei durante degli scontri a Gerusalemme) e le famiglie palestinesi che hanno salvato numerosi ebrei durante il massacro di Hebron nell'agosto del 1929.
«Dall'agosto del 2023 stiamo raccogliendo storie di Giusti ebrei e palestinesi collegate agli attacchi del 7 ottobre. Ne abbiamo già selezionate più di 40», racconta Samah Salaime, che dirige tutti i percorsi educativi. «Sono storie meravigliose di persone molto semplici: un autista di pullman, un ragazzo che lavorava in un distributore di benzina e ha nascosto dei bambini ebrei nel bagno, una cameriera ebrea che ha salvato un lavoratore palestinese». E ora c'è da trovare quegli israeliani che si sono rifiutati di combattere o che hanno denunciato i massacri di Gaza e si sono ostinati sfidando le autorità a ricercare il dialogo. E poi c'è l'importante Scuola per la pace che non solo serve al villaggio per discutere con dei facilitatori le questioni aperte della condivisione, ma ha compito di formare attivisti che possono stimolare nella società il dialogo tra israeliani e palestinesi.
«Purtroppo, la legge ci impedisce di creare nuovi villaggi di condivisione come il nostro, perché una legge dello Stato del 2018, praticamente dice che una terra può essere solo di proprietà degli ebrei. Per questo il nostro compito è quello di lavorare per il dialogo nelle sette città miste sparse nel paese. In tutti questi contesti, arabi ed ebrei già abitano e lavorano assieme, ma non sanno parlarsi, non vogliono realmente stabilire relazioni con i loro colleghi. Non dobbiamo allora costruire altre 'Oasi della Pace', ma insegnare alle persone a vivere in modo pacifico. Siamo chiamati a formare dei nuovi leader israeliani e palestinesi capaci di tenere assieme il punto di vista dell'altro».
Capita a chi come me segue da anni il conflitto israelo-palestinese di venir sovente viene preso dallo sconforto, perché sembra che tutti gli orrori siano sempre destinati a ripetersi e ci tocca nuovamente assistere alle stesse polemiche e contrapposizioni con i fanatici delle due parti che ripropongono sempre con gli stessi assurdi argomenti. Qualche volta non vorrei assistervi più pensando all'inutilità di ogni sforzo. Invece Raida Aiashe Kathib racconta nel libro la favola bellissima delle quattro candele.
La prima a parlare fu la candela della pace. «La mia luce, disse alle altre tre, non ha più senso, devo spegnerla e andarmene». Lo stesso discorso fece la candela della fede: «Nessuno crede più in me, né mi rispetta. È tutto inutile». E anche la candela dell'amore decise di spegnere la sua luce. «Nessuno si ama più. Nessuno mi vuole più. Che senso ha la mia vita e la mia luce)? Mi sto consumando inutilmente. Devo andarmene il più velocemente possibile. Così le tre candele si spensero. All'improvviso entrò un bambino nella stanza e cominciò a piangere, dicendo: 'Perché vi siete spente? Per favore rimanete accese. Che cosa farò senza la vostra luce'. Allora parlò la quarta candela, quella della speranza. 'Non devi piangere bambino, non devi perdere la fede. Finché ci sono io ad illuminare, c'è la speranza: dalla mia luce prendi luce e accendi le altre tre candele e così manterrai la pace, la fede e l'amore. Non perdermi».
Cosa è allora la speranza? È il concetto della natalità di cui parla Hannah Arendt. Le nuove generazioni possono cambiare il corso degli avvenimenti indipendentemente dagli errori di quelle precedenti. Chi nasce oggi ha la possibilità di farlo. Ma anche le nuove azioni degli uomini possono dare vita a qualcosa di imprevisto. C'è un punto di cui non parla mai nessuno. Otto milioni di israeliani e sette milioni di palestinesi non hanno altro luogo in cui vivere: sono per forza costretti a condividere la stessa terra. Per questo ci sarà qualcuno che finalmente sceglierà la strada più realistica e giusta.
Giulia Ceccuti, Respirare il futuro. La sfida di Neve Shalom Wahat al-Salam
Contributi di Brunetto Salvarani e Nello Scavo
Editrice «In dialogo», Milano, 2025, pagg. 224, € 18,00
[Questa notizia è stata pubblicata il 16/5/2025]
Immagine: copertina del libro.
Fonte: Gariwo mag.