
Riportiamo un'interessante intervista pubblicata da Huffington Post il 16 maggio 2025.
Come si può convivere in una società come la nostra, segnata da diversi tipi di disuguaglianze - economiche, di genere, di cittadinanza, culturale, di valori - che sembrano contraddire quella che dovrebbe essere una società democratica? La filosofa e sociologa Chiara Saraceno ne discuterà ai Dialoghi di Pistoia, festival di antropologia del contemporaneo che si terrà nella città Toscana dal 23 al 25 maggio. Con lei abbiamo parlato di diseguaglianza, migranti e accoglienza, anche in vista del prossimo appuntamento alle urne.
Professoressa Saraceno, il prossimo 8 e 9 giugno al referendum verrà chiesto se sia giusto ridurre da dieci a cinque gli anni necessari per essere cittadino italiano. Lei cosa ne pensa?
Penso che vada barrato il sì, perché cinque anni sono più che sufficienti per diventare cittadino italiano. Aggiungo che personalmente penso sia una legittima scorciatoia anche per concedere la cittadinanza ai minorenni, dal momento che leggi come lo ius scholae e lo ius soli non riescono a vedere la luce. Se i loro genitori riescono ad avere la cittadinanza un po' prima, anche per i minorenni la strada dovrebbe semplificarsi.
Quali benefici ci sarebbero in generale per la società nell'accogliere come cittadini italiani, con tempi più ristretti, persone che vivono sul territorio?
Queste persone investirebbero di più su questo paese, sul proprio futuro in questo paese. Mi ha colpito un'indagine realizzata circa due anni fa, compiuta su adolescenti italiani e stranieri residenti qui: la maggior parte di loro immaginava altrove il proprio futuro. Questo è un paese che alle giovani generazioni non offre un orizzonte credibile. Se per giunta a una fascia di loro, quelli senza cittadinanza, comunichiamo anche che non sono benvenuti, che non sono dei nostri, inviamo un messaggio molto scoraggiante. Creiamo atteggiamenti di auto esclusione, di rifiuto, di inimicizia. Di disaffezione o persino di aggressività. Chi si sente considerato nemico, può comportarsi come tale.
Quali sono i timori di chi non vorrebbe questa riduzione da dieci a cinque anni?
Hanno paura della cosiddetta invasione. Ho sempre molto rispetto per le paure delle persone, penso che debbano essere prese seriamente, anche quando non le giustifico e le trovo irrazionali. Perché comunque è un sentimento con cui bisogna interloquire. C'è la paura del diverso, la paura del fatto che possa in qualche modo intaccare la normalità, introducendo idee diverse, forme diverse. C'è la paura di non sentirsi più a posto, di non essere lo standard di normalità. Su questi timori marciano tanto alcuni politici. Parlano della migrazione associandola a invasione, criminalità, malattie, terrorismo. Le persone si sentono minacciate.
La destra invita a non votare a questo referendum.
Trovo curioso che dei politici invitino a non esercitate il diritto di voto. Il diritto di non voto non è la stessa cosa, perché in questo caso, vista la necessità del quorum, significa impedire anche agli altri cittadini di esprimere la propria opinione. Si può fare campagna per il 'no', ma che i politici diano questo messaggio, soprattutto politici con una posizione di grande responsabilità come il presidente del Senato, lo trovo grave. Anche perché nel contesto attuale, la presenza alle urne purtroppo è sempre molto scarsa. Non è un bel messaggio democratico.
A proposito di migranti. Sabato a La Spezia si terrà una manifestazione di CasaPound per la remigrazione: l'idea di espellere con la forza da un certo paese tutte le persone straniere la cui presenza è ritenuta problematica, anche se hanno un regolare permesso di soggiorno. È un concetto datato, ma sta tornando particolarmente popolare.
Non si tratta solo della destra, ma anche della sinistra. Non solo Donald Trump, ma anche Keir Starmer sta cavalcando il tema dell'immigrazione per raccogliere consensi. Affrontare seriamente la questione significherebbe capire che la problematica dell'emigrazione è comprendere cosa possiamo fare per le persone che arrivano qui, attuare forme di accoglienza adeguate.
Anche perché è un dato di fatto che l'Italia stia cambiando volto. Lo abbiamo notato tanto osservando i campioni delle Olimpiadi, ma succede anche nella vita di tutti i giorni: la seconda generazione è cresciuta. Questo passaggio che sfide rappresenta?
Se noi continuiamo a dare il messaggio che qui non sono benvenuti, creiamo dei nemici in casa. È una scelta anche stupida perché noi siamo un paese vecchio. Seppure venissero attuate adesso politiche per la natalità particolarmente efficaci, l'esito si avrebbe solo fra vent'anni, perché i bambini hanno questa caratteristica di metterci un po' a crescere. Dovremmo investire di più sui giovani, autoctoni e non, perché anche l'emigrazione è aumentata. Abbiamo pochi giovani e per giunta scoraggiamo quelli che vengono o crescono qui a rimanere.
Il migrante è una risorsa in un'Italia in cui la natalità tocca ogni anno i minimi storici.
Non possiamo farne a meno. Però neanche possiamo usarli come forza lavoro senza investire su di loro, senza investire nella loro informazione, in inclusione sociale. Che non significa renderli uguali a noi, perché non siamo tutti uguali neanche noi, ma significa dare loro le stesse risorse, permettere loro di integrarsi.
A Gallarate oggi è stata bloccata la cosiddetta norma anti-maranza. Una sorta di divieto di assembramento nato col tentativo di fermare una successione di aggressioni nel fine settimana a opera delle baby gang. Che tipo di impegno ci deve essere affinché le migrazioni non si traducano in ostilità tra chi c'era e chi arriva?
Avremmo dovuto imparare dall'esperienza francese, dalle conseguenze di tenere questi ragazzi stranieri fuori, escluderli, marginalizzarli. Dovremmo preoccuparci del fatto hanno tassi di fallimento scolastico o di abbandono precoce più alti di quelli degli italiani. Questo fenomeno non possiamo prenderlo solo dalla coda, con le punizioni. Dobbiamo agire prima che si sviluppi. Non è buonismo, è autodifesa.
Si fanno così pochi figli, dicevamo. Quanto c'entra la difficoltà di conciliare famiglia e lavoro per le donne?
Le motivazioni sono diverse. Non per ultima, non tutti vogliono avere un figlio. La ritengono una scelta normale, ma fino a poco tempo fa era considerata anormale. Però, chiarito questo, occorre togliere i vincoli. Non posso pensare che una famiglia sia disposta ad aggiungere un altro membro in cambio di mille euro in più. Incentivare la natalità significa aiutare le coppie a trovare casa, offrire loro un lavoro sicuro, buoni stipendi, asili. Se costruisco un ambiente favorevole ai bambini, allora forse chi ha questo desiderio lo fa un figlio. Se invece le donne scoprono che avere un figlio significa perdere il lavoro, se i giovani sono costretti in lavori precari, allora diventa molto più difficile.
Il sistema di Welfare in Italia non ha una struttura abbastanza solida per concedere tranquillità alle famiglie?
È del tutto inadeguato. Le politiche di sostegno alle responsabilità familiari si sono sviluppate tardivamente e non benissimo, molto parzialmente.
Il costo della vita sale, ma gli stipendi in Italia sono fermi a 30 anni fa. Eppure nessuno protesta, non ci sono rivolte per le strade. I cittadini hanno smesso di arrabbiarsi?
C'è rassegnazione. La rabbia si può trovare in questo amore per il populismo, individuando un nemico nello straniero, nel rinunciare a votare. Il partito dell'astensione è quello di maggioranza in Italia. La sensazione è che la propria azione non serva a nulla e dunque si pensa solo al proprio orticello, anziché al bene collettivo.
Le nuove generazioni, raccontano statistiche, sarebbero meno disposte a sacrificare tempo libero per un lavoro poco soddisfacente e remunerativo. Siamo di fronte a un punto di svolta?
Ma a me questa sembra una bella cosa, è un punto di svolta. Non vuol dire che sono nullafacenti. Il lavoro è importantissimo, non solo per la remunerazione, ma anche per la soddisfazione personale. È un pezzo della vita, poi ce ne sono altri: l'amore, il tempo libero, la famiglia, gli interessi, la socialità. Ci dovrebbe essere anche la partecipazione politica o comunque la partecipazione civica. È un cambio culturale che ai datori di lavoro spesso dispiace, ma perché hanno un modello di lavoro assurdo. Bisogna cambiarlo, il che significa anche che anche noi come consumatori dobbiamo cambiare.
Verso che futuro stiamo andando: queste disuguaglianze che ci siamo raccontati sono destinate a inasprire la società o a modellarla?
Se non si fa qualche cosa, il rischio è di creare una società in cui i divari sono tali e la mancanza di riconoscimento reciproco è tale che viviamo barricati ciascuno nel proprio gruppo di riferimento. Una società sfatta, fratturata, che può provocare oltre che declino, per questo non c'è dubbio, ma anche rabbie improvvise.
[Questa notizia è stata pubblicata il 17/5/2025]
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Fonte: https://www.huffingtonpost.it/politica/2025/05/16/news/chiara_saraceno_referendum_migranti-19221650/