
Oltre la semplice assenza di guerra
Una definizione che a me piace molto è questa: convivialità delle differenze. Racchiude un po' tutte le linee fondamentali dell'edificio della pace.
Si parla di convivialità. Quindi, viene superato il concetto di pace come semplice assenza di guerra: se si sta a tavola a mangiare, vuol dire che il menù non è a base di bossoli e bombe a mano. Viene superato anche il concetto di pace come semplice acquisizione di giustizia secondo cui le ricchezze della tavola sono egualmente distribuite a tutti: non basta, infatti, che tutti i commensali abbiano il loro piatto, se poi non si sta a mangiare seduti insieme. E qui, il termine convivialità immette incredibili suggestioni. Fa capire, cioè, che la pace consiste nella solidarietà, simbolizzata appunto da un'unica tavola dove tutti, oltre che mangiare, possono dialogare, scambiarsi le espressioni festose dell'amicizia, e aggiungere una sedia in più per l'ospite che arriva in ritardo.
Oltre che di convivialità, si parla anche di differenze. E questo fa capire che la pace accetta, anzi valorizza, le diversità: non omologa, non uniformizza, non manipola le culture degli altri, non annulla il prossimo, ma lo esalta e lo accoglie come valore. Per i credenti in Gesù Cristo, questa definizione ha il vantaggio di far capire l'analogia esistente tra la pace e la vita trinitaria, la quale, appunto, è la convivialità di tre Persone, uguali tra loro, ma anche distinte, che vivono a tal punto la comunione da formare un solo Dio
Quali risvolti pratici nelle scelte concrete?
Solo da un entroterra di forti princìpi possono partire quelle scelte significative che imprimono orientamenti nuovi alla storia. Senza questo ancoraggio alle cosiddette sporgenze utopiche, si avranno solo sussulti emozionali incapaci di rispondere a progettualità articolate. Legandosi ai principi, invece, si darà il taglio della organicità ai mille gesti feriali.
Si potrà spiegare, così, che la pace non è solo assenza di guerra. Si farà capire lo stretto legame che intercorre tra pace e giustizia, per cui la guerra non potrà mai essere rimossa finché, per esempio, ci sono cinquanta milioni di persone che muoiono ogni anno per fame, e finché la divaricazione tra Nord e Sud della terra andrà allargandosi sempre di più. Si apriranno gli occhi sull'articolazione che esiste tra pace, giustizia e salvaguardia dell'ambiente, per cui ogni scempio ecologico si connette sempre col demone del profitto che scatena le guerre... Si coscientizzerà la gente, insomma, su tutte quelle tematiche vitali attraverso le quali passa il discrimine tra la sopravvivenza e la distruzione del genere umano.
Si dovrà, comunque, partire sempre dai princìpi per poter declinare l'impegno in molteplici iniziative flessibili. Dalle mostre organizzate nelle scuole, alle campagne per l'obiezione di coscienza. Dalle prese di posizione in determinate circostanze (come, ad esempio, per la vicenda del Golfo Persico), allo smascheramento sistematico del commercio delle armi. Dal boicottaggio di alcuni prodotti derivanti dai soprusi che le multinazionali operano sui Sud della terra, alla indicazione delle banche che favoriscono con i loro crediti i regimi che calpestano i diritti umani...
La pace che Gesù è venuto a portare non è «altra» ma «oltre»
Una riflessione bisognerebbe ribadire costantemente: che la pace di Gesù Cristo non è altra cosa rispetto alla pace che stiamo inseguendo sulla terra. Certo la pace che lui ci dona travalica tutti i raggiungimenti umani. Si pone al di là della nostre piccole conquiste.
Eccede tutte le misure con cui noi calibriamo i nostri sogni. Ma si raggiunge seguendo i percorsi terreni, scoscesi e impervi, dei piccoli travagli umani. Quando avremo battuto questi sentieri, ci accorgeremo che la pace di Cristo sta ancora al di là, non l'abbiamo afferrata tutta; ma non per questo dobbiamo disimpegnarci dalle fatiche feriali.
Lo dico perché, talvolta, quando qualcuno mi sente parlare per esempio contro il commercio clandestino e palese delle armi, o contro la militarizzazione del territorio in cui vivo, mi dice un po' preoccupato: «Ma lei ci deve parlare della pace di Cristo!» E cita immancabilmente il versetto del Vangelo: Vi lascio la pace, vi do la mia pace... non come ve la dà il mondo... (Gv 14,27). A queste persone io ripeto: noi alla fine dei tempi potremo godere la pace promessaci da Cristo (quella escatologica, diciamo con termine diffìcile) solo se qui sulla terra ci saremo sforzati di anticiparla nei segni. I segni della solidarietà, della ricerca del volto, della condivisione, del riconoscimento della dignità della persona umana... Però, se taccio di fronte alle ingiustizie dei faraoni concreti, difficilmente potrò appellarmi alla pace di Cristo come se questa mi disimpegnasse dagli sforzi, dalle contraddizioni, e dalle fatiche umane, comprese quelle di capire e denunciare il commercio delle armi.
Le nostre Chiese ministre di pace?
Occorrerebbe portare avanti, all'interno delle comunità cristiane, con più convinzione e in termini più critici, la riflessione sulla pace, richiamando la coscienza di tutti sulle cause che la mettono in pericolo. Promuovere, quindi, uno studio severo sui dati fondamentali dello shalom biblico. Organizzare incontri sulla spiritualità della pace. Esprimere un coraggio più evangelico nella denuncia profetica delle ingiustizie. Smascherare la logica di guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private. Indicare nelle leggi dominanti di mercato i focolai della violenza. Accelerare l'accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine economico internazionale. Fare della solidarietà l'imperativo etico fondamentale della vita personale e di gruppo. Impegnarsi per l'educazione costante alla pace, soprattutto delle giovani generazioni. Avere il coraggio di esporsi, magari anche con i segni paradossali ma eloquenti dell'obiezione di coscienza, in tutte le sue forme, sui crinali della contraddizione. Fare, infine, della preghiera lo strumento privilegiato di ogni dinamismo di pace, tenuto conto che la tenacia dei contemplativi non conta meno dell'abilità dei politici e che la bravura diplomatica delle cancellerie non vale più della forza dell'implorazione.
La guerra non ha diritto di cittadinanza all'interno della visione cristiana
Da quello che si è detto, mi pare che ne abbiamo abbastanza per sentirci autorizzati a levare la nostra voce contro la guerra, contro ogni guerra, intesa come mezzo per risolvere i conflitti. È una illusione tragica continuare a porre la nostra fiducia nelle armi e nelle strutture belliche. Gli assetti di guerra ripropongono logiche antievangeliche e, quindi, disumane.
Questo lo dobbiamo saper dire con forza e ripetere senza tentennamenti. Non lo affermano solo i credenti in Gesù, ma tutta una schiera di uomini di buona volontà appartenenti alle più diverse estrazioni culturali e religiose. Unica garanzia per la sopravvivenza dei popoli oggi è la soluzione nonviolenta dei conflitti.
Questo significa che dobbiamo far entrare nella nostra coscienza, mediante lo studio e la ricerca, tutte le strategie approntate dai metodi della nonviolenza che, non lo si ripeterà mai abbastanza, non è passività. Ecco perché, proprio per evitare gli equivoci, accanto alla parola «nonviolenza» si aggiunge un aggettivo stracarico di significato e si preferisce parlare di «nonviolenza attiva».
Ci sono segni di speranza?
Oggi, grazie a Dio, c'è un sommerso di speranza, di luce e di grazia che è veramente incredibile. Ed è costituito dai giovani. Ogni tanto, questo sommerso esce in superficie. Non si tratta di polarizzazioni effimere dell'entusiasmo giovanile che si articola attorno a determinati luoghi e in determinati tempi, per poi dissolversi nel grigiore di tutti i giorni in attesa di ulteriori sussulti. No. Si tratta, invece, dell'emergere di falde nascoste, concrete e permanenti, che ogni tanto escono allo scoperto e si visibilizzano, soprattutto nelle forme del volontariato e del servizio nella Chiesa e nel mondo: forse anche per dare coraggio a coloro, adulti soprattutto, che praticano un po' troppo la cultura del lamento. Andando un po' in giro a parlare, mi vado accorgendo che nella Chiesa e nella società oggi, alimentata dai giovani, c'è una straordinaria riserva di speranza che prelude a tempi migliori. A dispetto di tutte le letture di segno negativo che i mass media ci costringono a fare.
Peccato che i mezzi di comunicazione non abbiano imparato a dare i resoconti della cronaca bianca: ne rimarremmo travolti!
Fonte
Questo testo è un'intervista a mons. Bello fatta nel 1990. È stato pubblicato in: Tonino Bello, Le mie notti insonni. Per i costruttori di speranza e di pace, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, pagg. 75-83.
Chi era Tonino Bello
Don Tonino Bello è stato ordinato sacerdote nel 1957 e ha ricoperto diversi incarichi, tra cui quello di vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e di presidente di Pax Christi Italia. Il suo impegno per la pace lo ha portato a visitare terre martoriate come la Terra Santa, El Salvador, l'Etiopia e la Bosnia-Erzegovina. Nel dicembre del 1992, durante la guerra nella ex Jugoslavia, nonostante la malattia ha partecipato alla Marcia dei 500 a Sarajevo, città sotto assedio.
La sua figura è ricordata per il suo stile di vita semplice e umile, per la sua attenzione agli ultimi e per la sua capacità di comunicare la fede in modo diretto ed efficace. Le sue parole e i suoi scritti continuano a ispirare persone di diverse fedi e culture, rendendolo una figura di riferimento per il movimento pacifista e per quanti cercano un mondo più giusto e solidale.
[Questa notizia è stata pubblicata il 14/7/2025]
Foto: Wikimedia Commons