
Fedele alla sua mission di leggere in anticipo il sentimento diffuso della popolazione italiana, il CENSIS di Roma ha realizzato nelle scorse settimane un'indagine sulla percezione dei conflitti e sul riarmo nella società italiana. In una trentina di pagine si presentano 6 capitoli: Gli italiani in guerra; Il riarmo? Pacifisti, disertori, neutralisti e mercenari stranieri; Una pace apparente: un bilancio delle missioni all'estero; La spesa per la difesa e la capacità militare; Verso un'economia di guerra?; Un'anestesia della cultura collettiva di lungo periodo.
Bisogna dire che solo il secondo capitolo riporta dati effettivamente riferiti alle interviste fatte alle 1007 persone che hanno composto il campione (statisticamente rappresentativo dell'intera popolazione italiana maggiorenne). Le altre parti discutono dati di archivio e servono per disegnare il quadro complessivo e il contesto attuale.
In effetti non si può non rilevare che l'intento di chi scrive il rapporto sembra quasi voler criticare gli italiani e il loro modo di pensare. Ma andiamo con ordine.
Il dato più eclatante è quello di coloro che in caso di richiamo nell'esercito «risponderebbero positivamente, dichiarandosi pronti a combattere». Sono solo il 16%!
Quelli che - di fronte al coinvolgimento diretto dell'Italia in una guerra e alla eventualità di essere richiamato/a dalle Forze armate - dichiarano che protesterebbero dichiarandosi «pacifisti/e» sono il 39%. Ad essi/e va aggiunto il 19% di intervistati che «diserterebbe, fuggirebbe», portando a ben oltre la metà il numero di coloro che non darebbero alcun contributo alla guerra. È una fetta molto ampia della popolazione e il dato stupisce e conforta nello stesso tempo.
C'è, infine, un 23% che «si rifiuterebbe» ma non per ragioni ideali: semplicemente perché è convinto/a che «la soluzione sia arruolare soldati di professione, pagare mercenari stranieri».
L'immagine che ne esce è quella di un'Italia tutt'altro che eroica e votata al martirio né assolutamente guerrafondaia: un'Italia che rifiuta la retorica bellicista, optando per strategie di resistenza passiva. Sarcasticamente si commenta che «il Paese, lontano dal sognare imprese epiche, si prepara a resistere con astuzia, forte di un'eredità culturale che ha insegnato agli italiani a navigare nell'incertezza con intelligenza e strategie pratiche di sopravvivenza».
A fronte di questi dati il commento del CENSIS è sferzante. Gli italiani si sono adagiati nella certezza di lungo periodo di pace (80 anni esatti dalla fine della guerra mondiale): «Il rifiuto dell'idea della guerra è il frutto del prolungato periodo di pace vissuto da diverse generazioni di italiani. L'abolizione della leva obbligatoria ne è un esempio. Aggiungiamo pure una cultura pacifista profondamente radicata nel Paese, come portato storico di tradizioni politico-ideologiche di intere generazioni, nonché dell'impegno cattolico».
In altre parole che Italiani non comprendono la situazione, non capiscono che «ritornano dominanti politiche nazionali di potenza. E la guerra irrompe prepotentemente nella vita quotidiana, tornando a imporre la sua grammatica ed estinguendo l'eccezionalità italiana ed europea durata per ottant'anni. E torna attuale l'idea della guerra come espressione della politica con altri mezzi».
È davvero inquietante prendere atto del fatto che uno dei centri culturali più influenti del nostro Paese, fonte di studi e ricerche fondamentali per capire la società, prenda come unico e indiscutibile punto di partenza l'ineluttabilità della guerra, spiegata e dimostrata anche con un rapido excursus storico. Il fatto che i dati rilevati sul campo cadano nella direzione esattamente opposta al pensiero dell'autore del report non è un problema (anche se è indice di scarsa professionalità e rigore di chi fa ricerca): chi ha risposto alle domande non ha capito nulla.
L'unica speranza è che questo approccio sia sfuggito ad un sociologo troppo verso la narrazione che si vuole far prevalere. Il titolo stesso di questo report lo fa capire. Titolare «Gli italiani in guerra» quando per l'Italia non c'è nessuna guerra in corso è già di per sé fuorviante.
L'impressione che rimane dopo la lettura è quello di trovarsi di fronte ad un altro pezzetto, fatto passare senza troppo rumore, di quella cultura della guerra, della difesa armata, dell'ostilità, della conflittualità in cui da tempo siamo immersi senza che ce ne accorgiamo.
Questo testo è stato pubblicato su Vita trentina, n. 32 del 3 agosto 2025, pag. 7
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[Questa notizia è stata pubblicata il 30/7/2025]
Immagine: www.pexels.com
Autore
Giampiero Girardi