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Piccolo Sperpetuo
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Sperpetuo, in napoletano, è un trambusto, un'agitazione dell'anima. Per me, è il modo di esprimere una sensazione di angoscia che non dà tregua, di fronte all'ennesima guerra, a un'ingiustizia, a una notizia amara letta e mal digerita.

I fichi di Paestum e gli Olivi di Turmus Ayya

C'è un rito che accompagna quasi tutte le mie estati a Paestum e che ha a che fare con una mia grande passione: i fichi. Sulla strada che porta davanti a casa mia, c'è un meraviglioso albero, che cresce in un terreno abbandonato. Nel bel mezzo del nulla, lui si erge fiero e regala i suoi frutti a chi vuole (e riesce) a raccoglierli. Ogni agosto, provo ostinatamente a raccogliere i fichi più lontani. Sono tra i fichi più buoni e saporiti che abbia mai assaggiato, frutto della mia ostinazione, ma anche della libertà di un gesto semplice, che mi regala ogni volta un sorriso.

Mi ha fatto pensare alla tranquillità di questo gesto per me così facile l'orribile notizia che ho letto qualche giorno fa: domenica scorsa, primo giorno di raccolta delle olive nel villaggio palestinese di Turmus Ayya, nel Cisgiordania occupata, un gruppo di coloni ha aggredito contadini e residenti palestinesi in un brutale assalto che ha causato numerosi feriti. Tra questi, una donna palestinese di 55 anni, che è morta per essere stata colpita alla testa da un colono ebreo mascherato, mentre lei stava raccogliendo le olive.

Il rapporto dei palestinesi con gli ulivi è una storia che ha un sapore antico, ma molto familiare alla nostra Italia rurale e mediterranea. Per i palestinesi, l'ulivo è sempre stato più di un albero. È sintomo di identità e resistenza e rappresenta ciò che li tiene letteralmente legati alla radice della loro terra. I coloni israeliani hanno perfino provato a sostituire gli ulivi con alberi alloctoni, come i pini europei, quasi a volere ridisegnare completamente il paesaggio e cancellare ogni identità. Ma la storia è finita male: i pini, che non resistono alle alte temperature della Palestina, hanno preso fuoco causando gravi incendi.

Oggi il settore olivicolo è completamente annientato, come è annientata Gaza. Eppure, come ogni popolo abituato a resistere da decenni, i palestinesi non vogliono rinunciare al loro olio e c'è chi sta tornando nei propri campi. Oggi però non sono solo gli alberi a mancare - su un totale di circa 1.100.000 alberi presenti prima del conflitto, oggi se ne contano circa 100mila - ma anche l'acqua, diventata un bene prezioso. Non solo, oggi anche acquistare l'olio è impossibile: un litro è arrivato a costare circa 30 euro. Da risorsa vitale, che scandiva le stagioni di un popolo, le feste, i sorrisi, a prodotto “alieno”, introvabile e inaccessibile.

La guerra è sempre privazione. Ma in questi orribili due anni di genocidio, abbiamo visto utilizzare la fame come arma di guerra. Non dimenticheremo facilmente le immagini di bambini che a Gaza cercano chicchi di riso tra le macerie. Ma neanche l'accordo di pace siglato il 14 ottobre scorso, che ha sbloccato in parte gli aiuti, migliorerà le cose da questo punto di vista. Questo mese, uno studio delle Nazioni Unite ha riportato che oltre 54mila bambini sono malnutriti a Gaza.

Eppure numerosi esperti hanno avvertito che non tutte le conseguenze della carestia possono essere annullate. Per chi è gravemente malnutrito, anzi, il semplice fatto di ricominciare a mangiare pasti normali può causare malattie, persino la morte. E i sopravvissuti alla fame sono a rischio di malattie croniche e problemi di salute mentale per decenni, anche dopo aver avuto nuovamente accesso al cibo. Sono dati raccolti dal New Yorker, che ha intervistato ricercatori di istituti di salute mondiale. La fame fa morire ma anche il cibo, se assunto dopo così tanto tempo.

Studi che ci dicono che ciò che non vediamo oltre la carestia, e che oggi manca a Gaza, è tantissimo: sono riti collettivi, affetti, spazi aperti, educazione, benessere, lavoro, agricoltura. La “multidimensionalità” della fame che ti corrode dall'interno.

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[Questa notizia è stata pubblicata il 24/10/2025]
Foto: www.pexels.com


Autore

Maria Panariello


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